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Monday, 16 March 2020 12:41

1965, L’ANNO ZERO: IL DOTTO STRANAMORE

A 55 anni dalla fondazione di FABI, ricordiamo quando un film di culto fu snobbato agli Oscar del 1965

Forse fu il titolo originale, fondamentale tanto quanto esilarante ma troppo lungo troppo strambo per i canoni cui si era (e si è) abituati: non solo “Doctor Strangelove” dunque, bensì “Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb”.

“Il Dottor Stranamore o: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba”.

Boom!

Brillante, sopra le righe. Già dalle prime avvisaglie un titolo che avrebbe dovuto far rizzare le antenne a tutti, non solo ai fan sfegatati del solo 37enne genio statunitense Stanley Kubrick.

Forse fu la strepitosa satira antimilitarista interpretata da un magistrale e irresistibile Peter Sellers, coinvolto addirittura in tre ruoli differenti. Performance che avrebbe dovuto recapitargli l’Oscar 1965 come Miglior Attore direttamente all’indirizzo di casa.

Forse furono i sottostrati narrativi dagli alti contenuti erotici e dal crudele sarcasmo verso qualsiasi forma di potere, presidente statunitense compreso. Letteralmente, tutto nasce dall’impotenza di un comandante inglese che lancia in aria missili perchè non può “alzare” il suo. Talmente avanti coi tempi che ancora oggi, rivedendolo, ci riesci a interpretare parte della nostra attualità. Una sceneggiatura da Oscar, appunto.

E invece no. Non andò così.

Il “Dottor Stranamore” si presenta alla vigilia con ben quattro nomination: miglior film, miglior regista, miglior attore protagonista, miglior sceneggiatura non originale.

DR.-STRANGELOVE-American-Poster

A guardare bene la rosa del 1964 (gli Oscar premiano sempre i film usciti nell’anno precedente a quello dell’edizione corrente), non sembrerebbero esserci rivali troppo pericolosi per la pellicola di Kubrick.

I “migliori film”, in un periodo dove i musical la fanno da padrone, sono robetta come “My Fair Lady” (di George Cukor) e il gran classico ”Mary Poppins” (di Robert Stevenson): il “Doctor Strangelove” è su un altro livello rispetto alla melassa sentimentale dei due sopracitati, con ”Becket e il suo re” (di Peter Glenville) e soprattutto ”Zorba il greco” (di Michael Cacoyannis) a rappresentare forse i pericoli più realistici.

La statuetta più importante la vincerà, purtroppo, “My Fair Lady”, con tanti saluti alla geniale e distorta rappresentazione degli equilibri mondiali durante la Guerra Fredda del Dottor Stranamore, alla denuncia dell’assurdità degli armamenti nucleari usati come minaccia da Stati Uniti e URSS, all’ironia sferzante dei dialoghi e dei personaggi…

Non avrà sorte migliore Peter Sellers, che il 5 Aprile 1965, a Santa Monica, guarderà inerme salire sul palco a ricevere il “miglior attore protagonista” Rex Harrison, il protagonista del musical “My Fair Lady”, un’opera dai sentimenti e messaggi all’acqua di rose diametralmente distanti da quella di Kubrick.

Il mondo, è evidente, non è ancora pronto per il Dottor Stranamore.

Non è ancora pronto per un mago del trasformismo, uno dei più grandi attori di sempre (Harrison l’avete mai sentito?), capace di interpretare con la stessa, identica credibilità un alto comandante delle forze armate inglesi, il presidente degli Usa con accento del Sud e uno scienziato tedesco ex-nazista assunto dagli americani per carpire i segreti dei vecchi nemici, un guerrafondaio principale consigliere del presidente.

Il Dottor Stranamore, appunto. Un ruolo che sarebbe poi diventato di culto, citato in tutta la cultura popolare fino ad oggi. Ma non in quel 1965.

La satira è troppo feroce, troppo diretta in un momento molto delicato per gli Stati Uniti, appena usciti dalla crisi missilistica di Cuba e impelagati in una guerra del Vietnam dai risvolti sempre più drammatici e privi di senso per il rapporto tra forze militari impiegate e risultati raggiunti.

Probabilmente uno dei grandi motivi dietro alla mancata consegna della statuetta alla “miglior regia” a Kubrick, finita di nuovo in mano a George Cukor e a “My Fair Lady”. Un premio che, anche solo per Questa Scena, avrebbe dovuto avere un solo padrone.

Manco a dirlo, gli Oscar del 1965 non si sarebbero salvati nemmeno con la “sceneggiatura non originale”, un oltraggio non scusabile al talento creativo di Kubrick capace di riadattare in chiave satirica il libro “Red Alert” dello scrittore gallese Peter George, consegnando quindi il premio a Edward Anhalt per “Becket e il suo re”.

Ci sarebbero voluti decenni, il crollo del Muro di Berlino e la rivalutazione critica di quello che è ormai diventato un film di culto e di riferimento per ogni cinefilo che si rispetti, per attribuire al “Dottor Stranamore” il giusto valore e incastonarlo tra i vertici più alti del Cinema.

Un onore che nel 1965 gli Oscar si guardarono bene dall’attribuire, entrando loro malgrado nella Storia dalla porta sbagliata.

Un’ironia a dirla tutta molto coerente con lo spirito del film, una miscela di assurdità, non-sense e dialoghi surreali.

“Signori, non potete combattere qui. Questa è la sala della guerra!”

Michele Pettene

Friday, 28 February 2020 17:32

1965, L’ANNO ZERO: INNI ROCK

A 55 anni dalla fondazione di FABI, ricordiamo gli inni rock che hanno segnato il 1965

Impossibile non pensare con nostalgia ad alcuni periodi della nostra vita, quelli che alcuni fortunati tra noi hanno vissuto e quelli che molti di noi avrebbero voluto vivere.

Il 1965 è uno di quei momenti, un anno spartiacque tra l’inizio del Decennio ereditato dal boom economico post-Guerra Mondiale e la fine dello stesso Decennio, quando speranza, amore e fiori verranno sostituiti dalle cupe nubi dei Seventies.

Un anno di clamorosa creatività, forse non per coincidenza l’anno della fondazione di Fabi. Un anno di inni rock memorabili.

Chi accende le radio 55 anni fa, o inserisce un vinile nel proprio giradischi, è trascinato nel sound fumoso, elettrico, perverso, malinconico e seducente del rock and roll di stampo anglosassone, sia esso statunitense o britannico, pronto a raggiungere il suo massimo splendore.

In un’epoca difficile ancora legata ai rigidi valori morali dell’epoca vittoriana, dove l’ipocrisia puritana o i timori della Chiesa additano i nuovi divi del palcoscenico come seguaci del Maligno, una vibrazione sempre più intensa sta iniziando a scardinare tutte le certezze pre-esistenti.

Non riesco a provare alcun piacere. Così canta Mick Jagger nel celebre brano “I Cant’ Get No Satisfaction”, iniziando a condannare simbolicamente molte di quelle situazioni quotidiane legate al consumismo in esplosione che non procurano nessun sentimento positivo alle nuove generazioni.

E’ una denuncia – decisamente non l’unica in quei mesi che faranno da apripista al Sessantotto – a un sistema sociale che, superati i drammi della Grande Guerra, si sta adagiando su se stesso, intontito dal nuovo benessere.

Una dichiarazione d’intenti rock di una delle due band di riferimento della Gran Bretagna cui non può non rispondere l’altra, addirittura pubblicando due album di culto in un’unica, fenomenale annata: i Beatles, con “Help!” e “Rubber Soul”, toccano alcune delle vette assolute della loro carriera, mettendo in poesia cantata il passato romantico con “Yesterday” e rivolgendosi all’oggi con una richiesta d’aiuto – “I need somebody! Help!” – quasi profetica alla luce dell’addio violento e tristissimo del leader John Lennon nel 1980.

Ai due gruppi leggendari del Vecchio Mondo fanno eco altri grandissimi del rock dall’altra parte dell’oceano. Bob Dylan con “Like a Rolling Stone” dipinge la metafora dell’uomo moderno, una pietra rotolante priva di una casa, solitaria e senza significato, rigettato dalla società e spogliato del suo status, ma c’è spazio anche per Barry McGuire, cantautore bianco dell’Oklahoma e per il suo inno di protesta verso un’America ancora allergica al rispetto dei diritti civili e catapultata in una delle guerre più atroci e insensate della sua storia, quella del Vietnam.

La sua “Eve of Destruction”, traducibile con “Sul Ciglio della Distruzione”, è la versione più famosa di una canzone che tanti hanno voluto cantare e reinterpretare e che in frasi come “Sei abbastanza grande per uccidere, ma non per votare” raccoglie il sentimento di rabbia, di frustrazione ma anche di radicale cambiamento dei giovani americani mandati a combattere i vietcong.

Anche il folk statunitense non si tira indietro in un periodo dove si sta facendo sentire forte il desiderio interiore di comunicare il proprio disagio, di annunciare il proprio malessere o la propria solitudine. L’omicidio-shock del presidente Usa Kennedy è distante solo due anni e “The Sound of Silence” di Simon & Garnfunkel sembra rielaborarne il lutto, annunciando l’arrivo di una nuova era, rivoluzionaria ma piena di ostacoli.

C’è spazio e successo anche per generi più leggeri, di cui l’Italia è maestra con Gianni Morandi, Adriano Celentano e Mina – pietre miliari ma solo pochi l’hanno già intuito – mentre dal Regno Unito anche gruppi meno appariscenti come i “The Animals” sfoderano il loro grido di battaglia, quel “Please Don’t let Me Be Misunderstood” che racchiude tutte le richieste di essere compresi della nuova ondata giovanile.

Un grido che gli Who, altra band inglese leggendaria, riprendono e ripropongono come un manifesto, dichiarando “La gente cerca di abbatterci solo perchè ce ne andiamo a zonzo”: è  rivolta alla “My Generation”, quella che nel 1965 sta iniziando a prendere coscienza del proprio ruolo nel mondo.

Peace and love folks.

Michele Pettene

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