“Papà, ma tu esattamente che mestiere fai?”. È proprio quell’avverbio che ti mette in difficoltà, perché sai che devi dare una risposta inequivocabile. E perché la scrittura non è mai collocabile in un ambito determinato. È liquida, si mescola a percezioni. La scrittura fluttua tra dimensioni differenti, ognuna delle quali è sempre pronta ad intersecarsi con l’altra.

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Una di queste è proprio l’essere genitore. Un “mestiere” anch’esso. Il più armonico.

E quando fai incontrare il padre e il giornalista, a poche ore dal 19 marzo, non possono che ricongiungersi tutte le storie vissute attraversando la tua terra, insieme.

Storie di uova. Storie di palloni ricorsi. Storie di calici accarezzati e di balle di fieno. Persino la stupefacente scoperta dell’abbandono di uno spazio.

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E ricordi l’istante in cui lo scatto è stato superato dalla meraviglia, dal riuscire a cogliere una parola nuova, da un’interrogativo improvviso e spiazzante.

Ricordi il sapore della sabbia del tuo mare, “che poi papà appartiene a tutti”.

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Non puoi e non vuoi dimenticare il pianto sotto un affresco, non per l’indifferenza di fronte ad un piccolo capolavoro ma perché la fame ha la precedenza.

In questo pentolone di memorie fumanti ci sono i passi verso la grotta della Sibilla, i colori serpeggianti sotto la pioggia, il silenzio preso per mano dalle gradinate di un teatro romano, quel nascondersi tra onde di un verde lucente, le tavole di un palcoscenico consumato, l’aquilone spinto verso Oriente.

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E infine il riposo, che ti fa esplodere il cuore.

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Allora auguri, cari papà. E festeggiate sempre il privilegio di vivere questo “mestiere”. Senza bisogno di sfogliare un calendario.